Mondo mamma | 14 ottobre 2024, 14:00

Il ladro che ruba la maternità

È la depressione post partum. Una malattia che sarebbe bene identificare fin dal principio per intervenire con tempestività. Ma non è sempre così semplice “acchiappare il ladro”. E non sempre si tratta di depressione

Il ladro che ruba la maternità

L’adattamento al nuovo ruolo di mamma per alcune donne è un momento difficile. Sentirsi incapaci di affrontare la situazione può farci percepire a noi stesse come sbagliate, inadeguate, e procurarci tristezza. Ma questo malessere quando può essere definito come una depressione post partum? Ne parliamo con Alessandra Bramante, psicoterapeuta esperta in perinatale, presidente della Società Marcé Italiana per la Salute Mentale Perinatale.

Quali sono i segnali da cogliere per capire se una donna sta vivendo una depressione post partum?

«Prima di tutto è importante sapere che più della metà delle depressioni post partum inizia durante la gravidanza e che l’ansia e la depressione in gravidanza sono un importante fattore di rischio per il successivo manifestarsi di una depressione post partum. Inoltre, un aspetto da tenere presente è la storia passata della donna: se ha vissuto un episodio depressivo prima della gravidanza o una precedente depressione post partum, sarà più vulnerabile rispetto a una donna che non abbia mai dovuto affrontare una depressione. Il nesso non è automatico, ma è importante esserne a conoscenza. Per questo motivo, per sentirsi più sicure e protette, alcune donne scelgono di seguire un percorso psicologico nel post partum o già a partire dalla gravidanza. Detto questo, credo che il segnale più importante da cogliere per capire se una donna in post partum è depressa sia là dove racconta di non sentirsi più come prima. Se si sente triste, non ha voglia di fare nulla e non prova più piacere verso le cose che prima amava fare, è insonne e tende a isolarsi, allora può darsi che “il ladro che ruba la maternità” si sia affacciato sulla sua quotidianità».

Il ladro che ruba la maternità?

«Sì, la depressione post partum viene chiamata così perché ha effetti non solo sulla mamma ma anche sul bambino, sulla relazione mamma-bambino e sull’intera famiglia. È davvero importante identificarla precocemente, anche perché le terapie hanno effetti più rapidi se si interviene subito».

La depressione è qualcosa di diverso rispetto al baby blues?

«Troppo spesso il baby blues e la depressione post partum vengono confusi. Il baby blues non è una patologia, ma una sindrome benigna, transitoria e reversibile, che si manifesta circa nell’80% delle donne dopo la nascita di un figlio, in seguito al brusco calo ormonale. Può iniziare già nelle prime ore dopo il parto, dura 1 o 2 settimane e poi si risolve spontaneamente senza necessità di essere trattata. La sintomatologia è la stessa, ma se dopo 2 settimane permane, allora non si può più parlare di baby blues. A questo punto è importante valutare la situazione e chiedere aiuto a un esperto formato in psicopatologia perinatale».

La depressione post partum ha delle specificità rispetto a una depressione che si manifesta in altri momenti della vita?

«I sintomi clinici sono i medesimi. Nella depressione post partum, però, la donna presenta un’ideazione depressiva rispetto al proprio ruolo materno, che si esprime con la percezione di essere incapace di prendersi cura del figlio, attraverso paura e insicurezza nella gestione del bambino, sentimenti ambivalenti o negativi verso di lui e percezione di isolamento dal contesto familiare».

Quanto influisce l'aspetto culturale? Ci è stato insegnato che la maternità è pura gioia...

«La società impone alle donne forti aspettative verso sé stesse: dobbiamo fare più figli, essere buone madri rimanendo anche mogli prestanti, tornare al lavoro ma dedicare al bambino tutto il nostro tempo libero. Inoltre, ci dicono che siamo fatte per partorire, che l’allattamento al seno è facile e meraviglioso e che quando avremo tra le braccia il nostro bambino esploderemo di gioia e amore infiniti. Ebbene, se questo è vero per molte donne, non lo è per tutte. Un racconto più realistico, che metta in luce le gioie ma anche la fatica, le aiuterebbe a vivere con più serenità e senza eccessive aspettative l’arrivo del loro bambino e la loro maternità».

Esiste un modo per prevenire una situazione di depressione?

«Esistono progetti di screening sul territorio italiano che hanno lo scopo di intercettare le donne a rischio durante il percorso di maternità. Questo è utile sia per un’identificazione precoce della sintomatologia depressiva, sia perché la malattia mentale è ancora un grosso tabù, ancor di più se si manifesta in epoca perinatale. Le donne si vergognano, faticano a chiedere aiuto. Siamo noi operatori a dover raggiungere le donne e raccontare loro che durante la gravidanza e il post partum esiste anche la sofferenza psichica, oltre a quella fisica. Per esempio, a Bergamo abbiamo creato un percorso che si chiama SalvagenteMamma, dove viene eseguito uno screening presso i centri vaccinali e le donne riconosciute a rischio di depressione (attraverso 2 brevi questionari autosomministrati) vengono invitate in consultorio per un consulto psicologico gratuito. Questo ci ha permesso di identificare e trattare efficacemente un numero elevato di donne che, senza il progetto, forse non sarebbero arrivate ai servizi».

Che ruolo può avere il papà di fronte a una depressione post partum?

«Il ruolo dei papà è fondamentale. Ed è sempre più necessario che, durante i corsi di preparazione alla nascita, sia dato spazio alla discussione sulle problematiche psicologiche e psichiatriche che si possono manifestare in post partum. Lo sguardo del papà diventa infatti essenziale per intercettare situazioni di disagio psicologico perinatale, che non vanno mai sottovalutate».

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