Le malattie rare non coinvolgono solo il bambino che ne è affetto ma una famiglia intera. Non esiste a oggi una definizione di malattia rara condivisa a livello internazionale, ma diverse liste di patologie realizzate da associazioni o istituti di ricerca. La caratteristica principale è l’eterogeneità, con varietà di sintomi e difficoltà a trovare caratteristiche comuni. I fattori condivisi sono invece il forte impatto emotivo sui pazienti e sui loro famigliari e le diagnosi difficili che portano a importanti ritardi. Alcune tra queste malattie hanno caratteristiche visibili già dalla nascita, come ad esempio la sindrome di Down o l’osteogenesi imperfetta, diagnosticabili già in utero. Molte altre, invece, si manifestano alla nascita o in età evolutiva. L’Italia è un Paese all’avanguardia nella gestione della terapia genica delle malattie rare. Il 31,5% degli studi clinici e il 36,9% dei farmaci biologici e biotecnologici sono italiani. Vanno da 1 a 2 milioni i pazienti affetti nel nostro Paese, 7 su 10 in età pediatrica, secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Circa l’80% delle malattie rare è legato a cause genetiche, il restante 20% ha cause eterogenee come l’ambiente, l'alimentazione, le infezioni o le reazioni immunitarie. Lo screening genetico neonatale ha un ruolo importantissimo nella diagnosi e nella cura, perché permette di accertare circa 50 malattie prima che si manifestino i sintomi e di individuare un piano terapeutico mirato e personalizzato. Il test, gratuito e obbligatorio dal 1992, viene eseguito tra la 48a e la 72a ora di vita direttamente all’ospedale di nascita; è un esame non invasivo e consiste nel prelievo di una goccia di sangue dal tallone del neonato. I dati indicano che un bambino su 2000 è positivo a una patologia di carattere genetico. Oltre a quelle individuabili, le altre non sono riconoscibili con lo screening e hanno un’incidenza bassa, fino ad arrivare a pochissimi casi al mondo. Tutte riguardano le abilità fisiche e/o mentali, le capacità sensoriali e comportamentali.
La ricerca ha bisogno di tempi utili per studiare ogni singolo caso, confrontarlo con altri simili ma non uguali per la loro unicità e procedere con le terapie. Diventa un sistema a catena che necessità della collaborazione tra diversi professionisti medici di eccellenza. Tutti i bambini hanno diritto ad avere una diagnosi precoce nel più breve tempo possibile e dare possibilità alla ricerca di conseguire nuove scoperte che, attraverso ogni singolo caso, aiuteranno altri casi simili/uguali e tutta la collettività. Per la “rarità” della patologia, pazienti e genitori dovranno affrontare difficoltà di ordine bio-psico-sociale; hanno bisogno di appoggio medico e psicologico ben strutturati per non sentirsi troppo soli.
Alessandro e Alessandra vivono in prima persona questa unicità con il figlio Gregorio.
Come valutate l’intervento dell’équipe medica?
«L’ospedale è ben strutturato; esistono canali privilegiati per le visite di routine dei bambini disabili con patologie complesse, esentate anche dai ticket; a livello psicologico esiste una buona assistenza, grazie alla presenza delle diverse équipe di supporto. Noi ci appoggiamo all’Ospedale Regina Margherita, eccellenza europea, e al progetto Paco, ma ci sono tantissime associazioni che si possono conoscere attraverso il passaparola e hanno l’obiettivo di mettere in contatto i rari fra di loro e di innescare un meccanismo virtuoso che rende più agevole la gestione della patologia».
E l’intervento socio-assistenziale?
«La difficoltà sta proprio nello stabilire un’assistenza il più adeguata possibile, perché, non conoscendo la malattia, non si conoscono i comportamenti e i limiti. Di default abbiamo un assistente sociale che ci dà la possibilità di accedere ai vari bonus, ma siamo noi genitori a cercare tutte le agevolazione di cui abbiamo bisogno. La cosa che funziona meglio è senza dubbio la rete che si crea tra i genitori. Quando è nato Gregorio, ad esempio, non sapevamo di poter accedere al Bonus Nido: con tutto quello che ti succede, l’ultima cosa a cui pensi sono i soldi. È stato poi un genitore a informarci e ad aiutarci ad accedere ai servizi».
Dopo che viene prescritto un piano terapeutico e che vengono stabilite le terapie più adeguate, come si gestisce nella quotidianità una malattia rara?
«È sempre difficile la gestione del piano terapeutico, è tutto collegato all’ASL. Noi abbiamo un farmaco salvavita e sarebbe utile agevolarne la consegna a casa, ma con il taglio dei costi le strutture pubbliche non sono organizzate per questo servizio, che è stato attivo solo durante la pandemia».
Come procede l’organizzazione familiare?
«Il caregiver non è tutelato, è un ruolo non riconosciuto, anzi completamente ignorato. Oltre alla pensione per il bambino, servirebbe anche un sussidio per i genitori: se la sezione medica di un ospedale non convince, il passaggio a quella di un altro ospedale si può effettuare solo attraverso il canale privato. Ad esempio, per accedere al logopedista di un ospedale diverso da quello assegnatoci, abbiamo prima fatto una visita privata da questo specialista, che ci ha poi dirottati nell’ospedale in cui esercita. Inoltre, il bimbo non è in grado di dire ciò che prova, deve essere il genitore a stabilire i suoi progressi. Tutta la gestione dipende dall’attenzione e dalla dedizione della famiglia».
Qual è stata la cosa più rassicurante che vi hanno detto?
«La cosa più rassicurante è il bambino, solo il genitore lo conosce; poi la solidarietà tra famiglie e le attenzioni che danno a tuo figlio, non le parole. Anche i medici sono accoglienti, la pet therapy, le associazioni… e non ci si immagina neanche quanti siano i volontari negli ospedali, tra cui tanti ragazzi. Una cosa che non conforta assolutamente è invece Internet: impari a non guardarlo più e a fidarti solo dei medici. Ci hanno insegnato che online tendi sempre a cercare quello che vuoi tu. L’autodiagnosi è la cosa peggiore che ci sia, la diagnosi migliore te la dà il bambino».
E all’asilo?
«Non esiste esclusività: la mattina tutti i bambini aspettano Greg e gli lasciano il posto al tavolino. Crescono bene anche loro; sapendo che c’è chi ha più bisogno di te, impari ad aiutare. Il merito di questa educazione è anche delle altre famiglie e dell’insegnante».
Il giusto percorso e un’amorevole cura quotidiana consentono al bambino di vivere la sua unicità, e con la sua famiglia non dovrebbe provare il gusto amaro della solitudine.